Come ha conosciuto Longevity e perché ha pensato di introdurlo nell’Istituto comprensivo statale di Tombolo che dirigeva?«Me ne hanno parlato alcune insegnanti interessate a partecipare al corso di formazione, ho approfondito il discorso, la proposta mi è sembrata stimolante – risponde il professor Ugo Silvello, prima insegnante e poi dirigente scolastico in istituti comprensivi statali della provincia di Padova dal 1986 al 2016, esperto di attività di formazione con gli adulti (insegnanti, docenti, dirigenti, enti scolastici) – L’esperienza di Longevity che ho incrociato nella mia carriera mi ha particolarmente interessato perchè sempre mi sono sempre occupato di come riuscire a motivare i docenti a insegnare e gli alunni ad apprendere. Tutti gli approcci nuovi, come Longevity, che avevano questa finalità mi incuriosivano e li approfondivo».
La grande lotta contro la pigrizia del cervello…
«Ho sempre sostenuto che il nemico principale della scuola fosse e sia la noia, la noia di fronte al sapere. E’ la più grande scommessa della scuola italiana. Di qui la necessità di risvegliare negli alunni l’interesse affinché l’apprendimento diventasse un processo affascinante. Se la scuola uccide il fascino del sapere fa il contrario del suo lavoro. Motivazione è empatia con chi ha energia da trasmettere. Non possiamo permetterci di deprimere i ragazzi e i primi attori su questo fronte sono appunto i docenti. Il docente come il genitore è un modello da cui il bambino e lo studente apprende. Tanto più il modello ha capacità attrattive tanto più entra in contatto profondo col discente. Si crea un flusso. Tutti noi abbiamo ricordo di almeno uno o più docenti altamente significativi per la nostra formazione. Questi docenti lo sono stati perché hanno comunicato in profondità con noi. È questa profondità che va indagata. Come nasce? Da cosa nasce? Certo dalla competenza disciplinare, ma quanti ottimi disciplinaristi riescono a far odiare la materia che insegnano se non hanno quel qualcosa di più, cioè l’empatia che certo nasce anche, ma non solo, dalla passione per la propria disciplina».
Longevity come c’entra in tutto questo?
«Rientrava nella mia ricerca di sperimentare modalità dinamiche per favorire l’apprendimento. Longevity anima, da un’altra dimensione, rompe questo clima di stanchezza che ancora, in parte, si vive a scuola. È qualcosa di trasversale alle discipline. Ho capito che si attiva una dimensione più profonda di quella normalmente legata al dire, al predicare, al sollecitare attraverso la parola. È un’esperienza che rende attivi gli alunni e permette ai docenti di conquistare saperi e modi che riescono a influire positivamente sugli alunni e sulla classe. Mi pareva e mi pare un approccio che ottimizza le energie necessarie per apprendere».
Se dovesse pensare a questo tipo di proposta nell’attività didattica con cosa la coniugherebbe?
«Col concetto di competenza: un conto è dire le cose, richiamare, spiegare, raccomandare, un conto è avere a disposizione e applicare strumenti per mettere in atto questo dire che è appunto il saper fare. Ma ho visto che Longevity dà risultati anche sotto il profilo del saper svolgere compiti significativi, l’imparare ad imparare, l’accrescere la capacità di iniziativa, inclusa quella imprenditoriale. La sfida per chi insegna è trovare il modo di valorizzare gli spunti, le iniziative creative di bambini e ragazzi, far crescere l’atteggiamento esplorativo. In fondo, in ogni settore che siano alunni o adulti, la molla principale che ci spinge a perseguire obiettivi è sperimentare in essi il successo. Se siamo autoefficaci continuiamo ad impegnarci e troviamo gratificazione nel nostro agire. Una buona scuola deve far sperimentare il successo, l’autoefficacia”.
Come Longevity può aiutare lo sviluppo del saper fare?
«Attraverso la creazione di motivazione. Aiutando gli studenti a ritrovare concentrazione e attenzione. Credo sia un guadagno di tempo creare a scuola momenti legati alla pratica Longevity perché rendono più efficace la qualità dell’insegnamento. Ho fatto il docente e il preside per oltre 30 anni: uno degli aspetti più difficili nel nostro mestiere è riuscire ad avere il controllo della classe creando climi positivi. Un docente prima di tutto deve sapersi proporre con il giusto atteggiamento, avere un suo autocontrollo, una calma interiore ed anche strumenti operativi per creare climi positivi».
Ci si può chiedere se introdurre l’attività di Longevity a scuola equivalga ad introdurre una nuova disciplina o materia in classe?
«È tutt’altra cosa, nella mia esperienza. È un modo di ottimizzare il tempo in classe. Buona parte dell’insegnare oggi è dedicato al controllo dei comportamenti, alla promozione dell’attenzione, ai richiami. Ma limitarsi a predicare “state seduti, state fermi” o a punire con note ed altro se l’avvertimento non si rivela sufficiente non basta. Longevity aiuta a diminuire questa parte di tempo sprecato con le sue componenti frustranti anche per chi insegna. In fondo chi insegna volentieri è chi sta bene nel proprio mestiere, non combatte con esso, ma trova gratificazione. Forse questo ha anche molto a che fare con la lotta agli onnipresenti discorsi depressivi di chi lavora attendendo costantemente la fine del lavoro. Una condizione questa che certo non aiuta la salute mentale del docente e neanche il clima in classe».
In base alla sua esperienza come immagina l’inserimento di Longevity nella programmazione scolastica?
«I modi possono essere vari. Ad esempio attraverso progetti da includere nei Piani dell’offerta formativa (Pof e Ptof) dedicati alla motivazione a imparare o a combattere problemi e difficoltà che incontrano gli insegnanti e i dirigenti scolastici come il bullismo (grande tema di questa fase storica della scuola) o i disturbi dell’attenzione e dell’apprendimento. Più però che delle appendici, vedrei Longevity come un abito quotidiano che il docente e gli alunni indossano con naturalezza quotidiana».
Che valutazione dà dell’esperienza Longevity nell’istituto di Tombolo quando ne era il dirigente scolastico?
«Come dicevo, svolgo da oltre 25 anni attività formativa con gli adulti e quindi sono a conoscenza delle dinamiche che questo tipo di formazione a volte crea, nel senso che è difficile controllare o vedere la ricaduta nella classi rispetto a quanto si insegna nei corsi di formazione».
E in questo caso?
«In questo caso la percezione è che con le mie insegnanti la ricaduta ci sia stata: nel senso che le docenti trovavano una motivazione intrinseca ad applicarlo, perché proprio lavoravano anche su stesse e quindi era più facile trasferirlo sugli alunni. A volte il riscontro è stato anche sorprendente nel senso che, ad esempio, alcune di queste insegnanti che avevano un’anzianità più consistente e quindi potevano anche presumibilmente essere meno motivate invece hanno dato un segno di grande interesse, confermata dalla tendenza ad applicare la formazione ricevuta nelle classi con una certa assiduità. Dandomi anche direttamente riscontri significativi. E questo certamente fa bene alla scuola».